C’è chi d’estate legge i gialli o le riviste di gossip: io stavolta sono andata dalle suore.
Ho passato la mia estate dalle suore. D’altronde amo le suore: quelle vere, con la tonaca nera lunga fino alle caviglie e il velo nero. Quelle chiuse nei conventi in clausura a sgranare rosari all’infinito, dimenticate dai secoli e dal mondo secolare. Suore lontane dal sandalo ortopedico e dal fischietto della partitella all’oratorio feriale: questo è lo stereotipo delle moderne suore di mondo, che ispirano o traumatizzano per sempre bimbetti in attesa dei sacramenti di comunione e cresima.
No, le sue suore che piacciono a me sono quelle ormai divenute polvere, le cui tenui tracce nella storia sopravvivono grazie ai polverosi archivi delle biblioteche sparse per tutta la Penisola. Per fortuna non sono l’unica ad avere questa lieve fissazione. Quest’estate ho scoperto che c’è sempre qualche storico che, spinto da questa o quella curiosità, finisce per scartabellare tra documenti che giacciono immoti e perduti in qualche scaffale tra Firenze e Roma, pronti a rivelare a chi li andrà a disturbare per la prima volta dopo secoli quanto le suore italiane abbiamo saputo essere toste, irriverenti, orgogliose, vanitose, perverse e impenitenti (*pun intended*) nei secoli. Perché sì, amo le suore, ma solo quelle che si comportano male.
Leggere un paio di storie di vere suore medioevale italiane – magari in combinata con la visione del film Benedetta di Paul Verhoeven [guardatelo! NdClod] – è un metodo veloce e molto efficace per fare un po’ di pulizia tra i pregiudizi che affollano la nostra mente quando pensiamo alle persone che vivevano nel Medioevo e nei secoli successivi, al loro rapporto con la religione. Ce li immaginiamo creduloni, bigotti, spaventati dalla venuta dell’Apocalisse e in generale poco brillanti. Ci piace immaginarci più intelligenti, acuti di loro, dall’altro della nostra supposta superiorità mentale e tecnologica.
Dimenticandoci che la religione era allora come oggi qualcosa di calato in un mondo regolato da logiche politiche ed economiche, dentro una società già rigidamente divisa in classi sociali. Allontanare un gruppo di donne più o meno giovani dal mondo chiudendole in clausura non cancellava questa realtà, anzi: la acuiva.
Posto che separare le novizie e le professe dal mondo è già un’impresa non da poco, anche quando i conventi sono presidiati e la regola della clausura è imposta a chi li abita, come spiega bene lo storico Craig A. Monson in Suore che si comportano male (Il Saggiatore), la comunità interna ai conventi riflette quella esterna, i legami con le famiglie d’origine non vengono mai rescissi. Anzi: i conventi sono un presidio di potere attraverso cui le famiglie ricche e influenti delle città tentano di far finire sotto la loro influenza anche i centri di potere religioso, spedendoci una o più figlie non maritate sin da giovanissime, per acquisire potere all’interno della comunità.
Come c’è finito Monson a parlare di suore italiane ribelli? Come molti scritti storici di questo tipo, il progetto è nato lentamente, per caso, mentre tentava di lavorare a un altro libro dedicato alla musica polifonica medioevale. Rinchiuso negli Archivi vaticani, costretto a imparare una ritualità bizantina, la legge non scritta imposta dagli archivisti, ha cominciato a imbattersi in carteggi riguardanti conventi disperati per la mala condotta delle loro suore o al contrario decisi a difenderle dagli attacchi di vescovi e prelati esterni. Carteggi che, una volta ricostruiti nella loro evoluzione, si sono rivelati infinitamente più appassionanti della musica polifonica.
Così nasce Suore che si comportano male, antologia di aneddoti storici riscritti con uno scorrevole stile narrativo che fa dell’intemperanza delle religiose italiane medioevali e rinascimentali il suo filo rosso narrativo. Protagoniste delle storie racchiuse nel volume sono donne giovani e non, per lo più aristocratiche, salite agli onori dei carteggi vaticani per aver creato notevoli grattacapi alla loro comunità monastiche.
Ne emerge uno spaccato variegato, vivace e talvolta peccaminoso del mondo conventuale. C’è la suora che si traveste da abate per uscire di notte dal convento e andare ad assistere a teatro all’opera, c’è chi perpetua piccole magie e riti pagani invocando disgrazia per le consorelle antipatiche, chi farebbe di tutto per uscire dal tal convento o proprio smettere i panni della monaca, chi ancora scatena devastanti lotte di potere per prendere il controllo del monastero, chi sviluppa un’amicizia un po’ troppo intima con novizie e consorelle.
Ne esce un racconto talvolta tragicomico di vescovi e parroci alle prese con intemperanti suore, animati da passioni autentiche per le arti, la musica, talvolta persino per la fede in sé e per sé, a cui questo o quel Concilio ha tolto la possibilità di esprimersi entro i già limitatissimi confini della propria condizione di vita.
Leggere questo tipo di testimonianze, per quanto sorprendente e divertente, è un memento piuttosto drammatico delle centinaia di migliaia di vite femminili che si sono consumate tra le mura conventuali per impossibilità di realizzarsi altrove. Vite dimenticate, mai nemmeno registrate, con tutto il loro bagaglio di sogni, aspirazioni, frustrazioni.
Suore che si comportano male ha dalla sua un racconto altrettanto avvincente e storico: quello di come è cambiato l’Archivio vaticano nell’era della digitalizzazione. Il volume merita la lettura anche solo per l’introduzione in cui l’autore ci porta all’interno dell’ortodossia bibliofila di uno dei più straordinari scrigni di testimonianze storiche al mondo. Un mondo fatto di codici non scritti e regole ferree che bisogna imparare a navigare, tra pause caffè segrete e divieto (poi decaduto) di usare laptop e cellulari.
Dentro Suore che si comportano male viene citata ma non raccontata quella che forse è LA Storia della suora italiana che si comporta male per eccellenza insieme a quella della monaca di Monza di manzoniana memoria (perché anche Manzoni, sotto sotto, amava le suorine birichine, no?).
Se Benedetta Carlini fosse santa, sarebbe la protettrice delle suore ribelli. Non lo è perché è stata tutto fuorché un esempio di rettitudine, finendo perfino sotto processo dell’Inquisizione per quanto successo nel convento di Pescia che l’ha ospitata per tutta la vita. La sua incredibile storia è stata scoperta e raccontata dalla storica Judith C. Brown in Immodest Acts: The Life of a Lesbian Nun in Renaissance Italy*, strepitosa biografia storica del 1986 ahimè al momento fuori catalogo nella vecchia traduzione italiana.
La storia di Brown è la medesima di Monson, cambia solo l’archivio: negli anni ‘80 la studiosa si trova a Firenze per alcune ricerche storiche alla Biblioteca nazionale. Dentro un volume trova un carteggio malamente riposto chissà quanti secoli prima da qualcuno. Il carteggio è quello del processo a Benedetta Carlini, suora del convento di Pescia divenuta giovanissima badessa all’inizio del XVII secolo nell’allora ducato di Toscana. Prima in odor di santità con le stigmate alle mani e ai piedi, Benedetta diventa poi protagonista di un processo in cui la si accusa di aver tenuto “condotte immorali” con una novizia, suor Bartolomea. Condotte che le due, sicure della loro innocenza, descrivono nei minimi, esplicitissimi particolari.
Brown coglie al balzo la storia di Benedetta Carlini per ricostruire nel proprio volume quanto l’omosessualità femminile confondesse i prelati e l’Inquisizione dell’epoca. Le suore colte in atteggiamenti troppo fraterni con le consorelle rischiavano meno dei frati macchiatisi dello stesso peccato o anche solo di essersi masturbati. Altro che dolcemente complicate: non avendo un’anima e non essendoci di mezzo un membro virile, “il fatto non sussiste” decretarono parecchi tribunali dell’epoca, pronti invece a pene severissime nei confronti di preti e prelati sorpresi a trastullare i loro genitali in solitudine o compagnia.
Nella lunga introduzione che accompagna la fedele trascrizione degli atti processuali contro Carlini, Brown come Monson dà uno spaccato vivacissimo e affascinante delle logiche economiche, politiche e pragmatiche alla base dei conventi e delle abbazie d’epoca medioevale.
L’aspetto forse più affascinante è che, per quanto straordinariamente ben documentate rispetto alle migliaia di suore senza nome, mansuete o ribelli, che hanno attraversato i secoli senza lasciare traccia, queste testimonianze sono solo frammenti attraverso cui ricostruire in termini moderni personalità forti, taglienti, talvolta anche sfuggenti.
Ci si può veder dentro tantissimo di moderno e contemporaneo, a riprova del fatto che ciò che rende l’umanità tale non è cambiato così tanto, salvo forse nell’ideare e modificare il lessico per descriverlo e comprenderlo. Mentre la morsa millenaria della religione si sgretola sempre più su alcune società secolarizzate in Occidente, è davvero un’esperienza unica ritrovare sé stessi nelle vite di persone, per lo più donne, a cui volenti o nolenti la religione ha plasmato l’intera esistenza, senza però togliere loro la loro essenza.
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* Immodest Acts: The Life of a Lesbian Nun in Renaissance Italy di Juditch C. Brown, 1986, Oxford University Press, 226 pp.*
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